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CHIAMAMI COL TUO NOME - Il bel cinema - Il bel cinema

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Apprezzato all’unanimità, e già premiato da lauti incassi e ottime recensioni negli Stati Uniti, Chiamami col tuo nome riesce laddove A Bigger Splash, perdipiù con quel brutto finale, era in grado di fare solo intuire la capacità e l’occhio (più che una poetica) di Luca Guadagnino; il quale, pur di dare una forte impronta autoriale, ha pensato bene di accreditare questo suo ultimo film come parte finale di una trilogia. Eppure la sceneggiatura di James Ivory (adesso in aria di rivalutazione) non sfigurerebbe nel personale discorso autoriale del regista americano: tutte le sue opere attingono da romanzi, nella fattispecie autobiografici e quindi di formazione, e questa storia d’amore è simile a quelle raccontate tanto in Maurice quanto in La figlia di un soldato non piange mai. Se da un lato già sappiamo come questo idillio si svilupperà e troverà fine (ma si vocifera di un sequel) non appena le parti vengono impostate, Guadagnino introduce elementi e dettagli certamente personali all’interno delle immagini, aggirando la committenza della banale storia d’amore estiva e lontana dalla città. Già in sede di sceneggiatura sembra sia stato del tutto rimosso il tono enfatico del romanzo di André Aciman, ma la regia potenzia questo tratto donando al film un ritmo placido e piano. I fatti vengono mostrati senza retorica alcuna, e se a ciò si unisce l’ambientazione quasi bucolica, si capisce perché la critica abbia speso i nomi di Renoir e Bertolucci. Inutile aggiungere che alcune scelte strizzano l’occhio alle mode correnti: le musiche dell’apprezzato cantautore indie Sufjan Steven (1), di cui bisogna ammettere anche che l’uso è quanto meno parsimonioso e in linea con l’economia espressiva di cui il linguaggio del film si fa forte; oppure l’ambientazione negli anni 80 proprio quando essi, oggi, godono di grande revival. Ma l’effetto nostalgia viene aggirato dall’ambientazione a Crema, restando per fortuna lontani dall’effetto cartolina, in cui la Storia e i luoghi arcaici non hanno alcun peso, se non quello di evocare una forza primordiale. Il 1983 conduce con sé il forte simbolismo della fine di un’era e dell’inizio di un’altra (postmoderna?) in cui avere un ideale non è importante, alto e basso stanno per perdere di significato, e importante è come si appare. Si deduce che tutto, dalla sfera personale a quella privata, sembra coesistere all’insegna del doppio. Nei bar e nelle piazze si balla senza soluzione di continuità tanto il post-punk dei Psychedelic Furs quanto le canzonette pop italiane di Loredana Berté (2) e questa dualità è ancora maggiore nel personaggio di Elio (Timothée Chalamet): ostenta una maglietta dei Talking Heads ma suona Bach, finge di leggere Eraclito ma in camera preferisce Diabolik. Ciò sintetizza lo sfondo con cui deve convivere la sua omosessualità: con l’ansia di essere giudicato perché ancora reputato diverso, è costretto sempre a mascherare i suoi sentimenti più profondi per essere accettato e vivere in pace in un mondo in cui ha un volto diverso, tanto da doversi creare, appunto, un doppio. Infatti in un primo momento Elio finge di corteggiare Marzia (Esther Garrel), e tutte le sue mosse e i suoi atteggiamenti sono finti e calcolati per darsi un’aria di arroganza, in piena emulazione di Oliver (Armie Hammer): ma quando l’amore omosessuale riesce a realizzarsi, esso non ha bisogno di tutte queste parentesi, tanto esso è naturale e sentito. Dal punto di vista registico, Guadagnino conferma di avere un occhio attento ai dettagli, a soluzioni registiche né banali (la scena di sesso inquadrata dall’alto tra Marzia e Elio) né semplicistiche (il piano sequenza al monumento della Prima Guerra Mondiale che divide e allontana i corpi nello spazio per sottolineare la loro distanza emotiva). Se il 1983 viene riassunto dalle figure dei genitori di Elio che rappresentano la tipica famiglia dell’era Craxi, con i loro ideali ormai svaniti e la loro cultura ridotta a mero sfoggio poetico (la bellezza delle forme, i corpi delle statue) o narcisistico (il dialogo sui neologismi), l’inquadratura (che dubito suggerita da Ivory e di certo non presente nel libro) che provoca nel 2018, almeno in Italia, una piccola vertigine sensoriale è quella in cui essi ridono alle battute di Beppe Grillo: segno che l’atteggiamento post-ideologico stava cominciando a farsi strada già allora. Nel trattare invece il sesso, se vengono risparmiati all’occhio della cinepresa gli organi genitali, la scena della masturbazione di Elio è quasi borowczykiana per la modalità (a quanto pare già presente nel libro) e per il dettaglio del coito. Accompagnata da Radio Varsavia di Battiato, questa scena sembra rifare al maschile il piano sequenza del poco visto Antonia (2015, Ferdinando Cito Filomarino) (3), in cui la solitudine della donna veniva sottolineata da Va di Piero Ciampi e dalla mdp che lentamente si allontanava dalla schiena nuda della poetessa sdraiata sul suo letto. Tutto questo in un periodo in cui il cinema d’essai è pieno di storie d’amore omosessuali: ma mentre Carol (povera Highsmith) cade in una ricostruzione stucchevole e manierata, Moonlight pecca di unilateralità e La vita di Adele risulta scontato (sia nei dialoghi che nella risoluzione), Chiamami col tuo nome attraverso piccoli accorgimenti si stacca dai film citati e ha qualcosa di molto forte da dire e raccontare. Tanto basta: è buon cinema. (1) Non me ne vogliano i suoi fan, ma pochi sanno che Guadagnino in un invisibile documentario su Pippo Delbono adoperava musiche di Kip Hanrahan: una scelta molto più rischiosa. (2) A quanto pare le sue canzoni sono immancabili in ogni film con protagonista gay: infatti è presente anche in Il padre d’Italia (altro film con molti richiami agli anni 80, ma con una valenza molto meno significativa). (3) Il film è prodotto da Luca Guadagnino. Biopic su Antonia Pozzi che viene anche citata da Esther Garrel in uno dei dialoghi.

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