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Partigiani a confronto II: la camera oscura dei ricordi - di

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Partigiani al confronto. 2. La camera oscura dei ricordi di Alberto Cavaglion La camera oscura dei miei ricordi non è una boutique, ma un fondaco oscuro, reso adesso più tenebroso dalle notizie che arrivano dall’ Ucraina e dai tanti paragoni, corretti o meno che siano, fra la Resistenza di Zelensky e la Resistenza di Galimberti. Lo so, c’è molta retorica a buon mercato nei confronti giornalistici e televisivi che si ascoltano tra la Resistenza ucraina e la Resistenza italiana del 1943-1945. Il paragone tende per sua natura alla semplificazione, alla strumentalizzazione, anche se mi piace ricordare che il nome di battaglia che Giorgio Agosti si diede una volta entrato in banda fu proprio Paragone e la prima domanda che si fece scrivendo nei suoi diari è la stessa che si fece Meneghello: “Come si colloca tutto questo nella storia d’Italia”. Sono due contesti storici differenti, due momenti diversi, il 1943 di Madonna del Colletto e il 2022 di Karkiv. Sono attori non paragonabili i resistenti ucraini e i banditi saliti in montagna nel 1943, sono confronti improponibili, lo so. Però mi infastidisce vedere allontanato il paragone con una alzata di spalla anche quando vedo negato il confronto fra i lanci di armi degli anglo-americani e le armi che gli europei mandano a Zelenski. Per allontanare questi confronti si ascoltano spesso bizantinismi. Si parla di una guerra tra due nazionalismi e non, come penso io, una guerra asimmetrica fra un imperialismo espansivo e una nazione che si difende per conservare la propria integrità territoriale. Se, finita la guerra, Zelenski porterà il suo paese in direzione di un “nazionalismo che sulla base del sangue e del suolo fomenta violenza e odio” è possibile, ma non è detto. Chi sa dire se saranno maggioritarie forze ispirate ai criteri di un nazionalismo estremistico? Come fa a sostenerlo adesso con tanta sicurezza? Lo vedremo, mi sembra presuntuoso decidere quando in gioco è la sopravvivenza stessa dell’Ucraina. Del resto, anche nell’Italia alla vigilia del 25 aprile l’idea di nazione nella quale identificarsi era incerta. I partigiani comunisti non avevano la stessa idea di repubblica costituzionale degli azionisti o degli autonomi. Che ne sarebbe stato di loro senza la svolta di Togliatti a Salerno? Il confronto con la Resistenza italiana non è così surreale come si vorrebbe. Le lotte di liberazione possono sempre avere fini imprevedibili. Una cosa però è sicura. Quando si combattono è sempre pretestuoso, da parte di chi non combatte, guardare dentro gli schieramenti di coloro che muoiono per liberare la propria terra. Vorrei aggiungere una seconda riflessione: la diffidenza verso ogni forma di nazionalismo a me suona sempre sospetta. Non tutti i nazionalismi si fondano sul sangue e sul suolo. Aspirano a una nazione tutti i popoli oppressi, dai curdi ai palestinesi, le cui ambizioni non mi sembra ricevano le stesse accuse accademiche di molti turbati soltanto dal nazionalismo ucraino, figlio di un dio minore, a quanto sembra. Lo stato-nazione, nel bene o nel male, gode ottima salute perché è l’unico sbocco possibile per chi ha la sua terra invasa dallo straniero: un diritto per molti legittimamente sognato, non una colpa. E più quel diritto è calpestato, più l’idea di nazione si consolida. Gli universalismi sovranazionali sono sempre seducenti sulla carta, ma utopistici: quelli che sono esistiti si sono dimostrati pericolosi, come la storia zarista e sovietica sta a dimostrare. L’alternativa ai nazionalismi fomentatori di violenza e di odio e alle nostalgie imperiali di Putin al momento mi sembra una sola. L’ha indicata, con la consueta stringatezza, Draghi nel discorso pronunciato a Strasburgo.  Quello che dobbiamo rafforzare, ha detto, è il “federalismo pragmatico” dell’UE. Intorno al 25 aprile di questo dolente 2022, mi ha infastidito ascoltare, dalla voce di persone che stimo, l’affermazione che i nostri genitori sarebbero saliti in montagna “per portare la pace”. Questa è una convinzione che non è assolutamente la mia. Mi ha amareggiato vederla esprimere da persone come me cresciute alla lezione dei piccoli maestri partigiani. Per portare la pace i partigiani hanno fatto la guerra, hanno imparato a usare le armi. Le hanno adoperate persone come Luigi Meneghello che osservando con meraviglia le proprie mani insanguinate si chiederà se sono ancora le stesse mani che fino a pochi mesi prima a Padova avevano in mano i codici petrarcheschi. Per avere la pace bisognava fare la guerra: “Sparare addosso alle persone, si legge in Piccoli maestri, se capita per incidens, non fa impressione; si cammina per un sentieruolo di monte a notte fatta, col Gios in Valstagna; a una svolta del sentieruolo il Gios salta, pare un gatto, in un lampo esplode qualcosa di multiplo, ti investe una ventata, un globo di baccano; sbatti per terra col petto e col viso, spari anche tu come un matto, da sotto in su. Queste due cose che vi rotolano addosso sono uomini ammazzati; questo non è niente. Altra cosa col ragazzotto tedesco, sull’Altipiano; aveva detto di aver disertato per unirsi a noi, è stato qui qualche tempo, poi ha tentato di scappare, è stato preso, dopo un po’ ha confessato, è una spia. Non abbiamo scelta. Siamo tutti d’accordo, anche lui. Gli abbiamo legato le mani con lo spago in questa piccola dolina di roccia. Abbiamo scacciato il Finco che si disponeva a rosicchiargli un orecchio, senza alcuna autorizzazione. Si domanda a questo biondino se vuol lasciar detto qualcosa, per qualcuno a casa sua in Germania, se saremo ancora al mondo alla fine della guerra. Esita, poi dice di no. Gli si domanda chi vuole che resti con lui, e lui sceglie. Gli altri vanno via. Si sentono ronzare le api. Qui la stagione è tarda per loro. Si è in piedi, quasi ci si tocca. In una specie di scossa pare di morire insieme”. Aggiungo una seconda citazione e la traggo dal libro scritto da un mio quasi omonimo, Giuseppe Levi Cavaglione . Egli è autore di una delle migliori ricostruzioni, in forma di diario quotidiano, delle vicende resistenziali sue e della sua formazione, ricca di pensieri sul senso della violenza in una guerra come quella partigiana e alla scelta obbligata, lui pacifista, di aggredire e uccidere esseri umani. Il suo tormento era aumentato dalla consapevolezza che i suoi genitori, a Genova, erano stati arrestati. Ecco alcuni passaggi del suo scritto: ”Non avevo mai sparato in vita mia contro nessun essere vivente, perché la caccia non mi piace e non immaginavo proprio che fosse così facile ammazzare un uomo”. E, ancora: “Dove saranno ora papà e mamma? Stringo i denti con furore. Non voglio morire così, devo ancora vendicarli. Quanto ho compiuto finora non ha placato il mio odio. La porta di casa si apre con fragore. Ci siamo. Sotto di me la camera si riempie di voci rauche, ‘raus’ ‘raus’, di passi appesantiti, di colpi contro le pareti e contro i mobili. Una fitta lancinante mi trapassa le tempie. Chiudo gli occhi e appoggio il viso sull’impiantito ansimando. La porta sbatte di nuovo. Ora tutto è silenzio. Mi sdraio sulla schiena. L’acciaio freddo della rivoltella mi ristora la fronte. Trascorrono ancora delle ore. Ma che importa mai? Poi una voce amica: ‘Sono andati via, Pino puoi scendere

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